Il canto delle checche

La cosa che più mi addolora è che le vocazioni oggi debbano subire senza riparo il “nubifrocio universale” che si sta abbattendo sulla Chiesa, così chiamato da don Ariel Levi di Gualdo nel suo volume “E satana si fece trino”, dove dice tra l’altro:

«Se davvero vogliamo affrontare questo problema drammatico, dobbiamo partire da un triste dato di fatto: oggi, all’interno del clero secolare e religioso maschile, il numero degli omosessuali è spaventosamente alto e si divide tra gay praticanti e gay repressi; i secondi più attivi dei primi nell’esercizio della loro logorante omosessualità psicologica. Gli omosessuali per carattere psichico repressi nel corpo, sono di gran lunga peggiori di coloro che praticano l’omosessualità fisica, causando da sempre all’interno della Chiesa dei danni talora enormi talora irreparabili, puntando sempre e di rigore a piazzarsi nei posti più alti e nei ruoli-chiave di governo, per meglio rafforzare una lobby molto potente e solidale al suo interno, retta su criteri pornocratici». (Cit. pag, 207).

Quelle canzoncine chiesastiche cantate quotidianamente mattina, mezzogiorno e sera (per essere poi imposte in parrocchia) sono la più compiuta espressione comunicativa delle checche da seminario, opera davvero diabolica visto che basta ascoltarle una sola volta per non togliersele più dalla testa.

Considerarle come una “penitenza” per accedere al sacerdozio mi pare un inutile fatalismo, mi sembra un arrendersi a quella gravissima malattia della Chiesa, oltre che un’impresa titanica e fondamentalmente irrealizzabile per uno che non è checca e verrà ossessivamente controllato e continuamente vagliato dalla cricca delle checche. Che a fine anno emetteranno quelle comiche e grottesche “relazioni” che severamente condannano quel seminarista che “non partecipa molto al canto”.

tratto da: Effedieffe – La Chiesa può accogliere ancora una vocazione?

Quando la vocazione viene ostacolata dai genitori

Caro fratello in Cristo, le scrivo affinché la mia testimonianza possa servire a tutte quelle ragazze che si sentono chiamate alla vita religiosa. Sono una ragazza di vent’anni e pur avendo una giovane età l’ho vissuta molto intensamente, e se potessi tornare indietro ripercorrerei ogni minimo istante. A soli dodici anni ho iniziato quasi per caso a frequentare un ordine di stretta osservanza, il quale mi ha portato ad amare Cristo e la sua Chiesa in maniera smisurata. Da piccola ho sempre pensato che un giorno mi sarei donata a Cristo […] presso quella che definivo la mia vera casa ossia qualche convento del mio amato ordine ed e inutile dire che non avendo mai potuto ottenere il permesso dai miei genitori di poter entrare in convento ho atteso il giorno del mio diciottesimo compleanno con ansia e trepidazione e mentre tutti si accingevano a preparare il mio compleanno io in grande segreto preparavo la mia anima per donarmi al mio amato sposo. Dopo qualche mese dal mio compleanno partii dicendo ai miei genitori che quello sarebbe stato un ritiro non come gli altri e che prima o poi sarei tornata, forse qualche mese o due ..iniziai il mio cammino sotto la guida di monache sante fedeli all’ordine e alla regola, persone che donerebbero la vita pur di restare fedeli alla loro professione. Avevo una gioia che mi veniva da dentro e che nessuno mai, pensavo, mi avrebbe potuto togliere. Certo le difficoltà ci sarebbero state, ma quelle ci sono anche nell’amore tra due creature. Ben presto i miei genitori si resero conto che quello sarebbe stato un ritiro senza ritorno e molto addolorati vennero a trovarmi disperati e con gli occhi pieni di lacrime mi supplicarono di tornare […]. Tornai a casa con la speranza che ben presto sarei ritornata. E fu proprio così, dopo poche settimane tonai nello stesso ordine ma nel ramo di clausura, parlo di clausura stretta, parlo dell’ordine delle [….] che menzionate anche nel vostro blog. Mai in vita mia avevo provato e sono certa che mai più proverò una gioia tanto grande. Pur essendo dietro a quelle grate mi sentivo libera, difficile a credersi ma era così, per me quella era l’anticamera del paradiso. Ancora oggi darei di tutto pur di ritornarvi. Le scrivo con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore, la prego sproni chiunque a non abbandonare la via della consacrazione a Cristo perché, mi creda, si muore per davvero. Attualmente sono fidanzata, vivo in una famiglia agiata, studio e non mi manca niente… eppure le dico mi manca tutto, darei la mia stessa vita pur di ritornare a qualche anno fa, ma purtroppo non è possibile, e certa di questo continuo a sopravvivere nella speranza di tornar ad avere almeno un minimo di felicità. La prego in nome di Cristo e della Madonna faccia l’impossibile ma sproni e aiuti coloro che hanno la tentazione di abbandonare, dica loro che la felicità sta solo nella strada che Cristo ha scelto per noi.

fonte: blog Cordialiter

Perché scappano via le vocazioni adulte?

Ma che è tutta ‘sta cagnara su quelli della mia età? Sai, è cominciata quando “qualcuno” ha lasciato la comunità di don E. per passare a una diocesi dove gli hanno promesso qualcosa di più concreto. Come al solito don E. se l’è presa e si è lamentato contro il novello Giuda iscariota e contro tutte le vocazioni adulte, a suo dire inaffidabili, pigri, vanitosi.

Bhè! Io sono inaffidabile pigro e vanitoso esattamente quanto le prossime vocazioni che don E. accetterà, ma non è questo il motivo per cui ho lasciato la comunità. Quelli della mia generazione hanno un livello di tolleranza alle stronzate più basso dei ventenni,mentre la vita di comunità non è una passeggiata. Perciò se mettiamo insieme queste cose con il normale carico di fissazioni che ha ogni prete che come esperienza di vita ha solo il seminario e la facoltà teologica, nessuno si dovrebbe meravigliare che qualche vocazione gli sfugga di mano dopo meno di un anno di vita comune.

Quando uno è membro di una comunità gli viene detto che è davvero fortunato perché ci sono tanti che cercano e che vorrebbero entrare da qualche parte ma non possono (in realtà quei tanti vorrebbero essere già preti e magari pure fondatori di comunità e dire ai loro seminaristi: sai, sei davvero fortunato…)

Il problema è la mentalità dei preti. Un prete che comanda, comanda, comanda, comanda e ti sfianca di lavori di casa quando hai già lo studio della teologia e gli impegni di liturgia comunitari, viene generalmente descritto come formatore esperto. Ma se un seminarista chiede una sedia più decente nella propria stanza oppure arriva solo 10 secondi prima dell’inizio della preghiera, è considerato una primadonna viziata e chic. Così, quando capita un’occasione buona, il seminarista lascia perdere la comunità e scappa via da qualcuno che lo tratta meglio: nessuno se ne dovrebbe stupire.

Ho 30 anni, non sono un bambino e capisco quanto possa essere faticosa la vita di una piccola comunità nata da poco. Capisco che chi guida ha tanto da fare (tra organizzare, decidere, parlare…) da dover delegare i numerosi servizi di casa a chi è in formazione e anche chiedere un contributo economico. Prima di entrare in comunità avevo studiato ingegneria: dunque apprezzo l’organizzazione e apprezzo anche di più l’ottimizzazione progressiva. Cioè quando qualcosa va storto, si accetta come penitenza il risultato e si trae una lezione chiara e limpida per il futuro.

La lezione che ho tratto io da questi mesi di vita di comunità è che ci sono dei prerequisiti indispensabili per mettere una vocazione in condizioni di “dare tutto” alla comunità e di dare sempre di più nella gioia nel servire il Signore. Meditando e pregando ho capito che più questi prerequisiti sono soddisfatti e più un seminarista si spende con gioia per la comunità: sono sicuro che nel medioevo, quando c’era un monastero ogni due villaggi, questi requisiti erano soddisfattissimi.

La lista dei requisiti che mi hanno fatto decidere,è questa:

  1. chi guida la comunità deve desiderarmi in comunità almeno quanto io desideri entrarvi (domanda: al di là dei discorsi e delle belle parole… in comunità sei come un figlio, sei come un ospite, o sei come un sospetto criminale?)
  2. il mio superiore deve avere sufficiente esperienza di vita da capire esattamente quanto sia faticosa ogni cosa che mi comanda (in comunità sei come un figlio primogenito o come l’ultimo dei garzoni?)
  3. il mio superiore deve avere intelligenza e saggezza tali da indurmi a fidare di lui anche quando non capisco le sue motivazioni (il superiore di una comunità non è un comandante di caserma a caccia di sempre nuovi trucchi per controllare e far rigar dritte le reclute!)
  4. lo stile di vita deve ispirarmi assoluta convinzione (la vita comunitaria deve santificare e arricchire spiritualmente, non deve semplicemente eseguire un programma di attività per riempire le caselline dell’orario-calendario)
  5. la gestione economica della comunità deve ispirarmi fiducia e non deve sindacare sui miei soldi (il seminarista deve donare nella libertà e nel segreto, non è una banca, non ha fatto voto di povertà più assoluta di san Francesco, soprattutto non gradisce vedere spesi con faciloneria i soldi!)

Allora, caro don E., quando quel tizio è andato via dalla sera alla mattina senza quasi salutarti, è stato per il fatto di essere trentenne oppure per qualcuno di questi cinque punti?

Vocazioni abortite

== INTRODUZIONE ==

Di questi tempi i nemici della Santa Chiesa hanno purtroppo molto da gioire, specialmente in campo dottrinale ed in campo liturgico. C’è purtroppo una questione alquanto sottovalutata che a seconda dei casi può essere considerata come causa o come effetto di molti mali presenti: è la selezione delle vocazioni.

Come causa: ai lettori è certamente noto il danno perpetrato da quegli ormai tanti sacerdoti ordinati chiudendo un occhio su almeno due dei tre munus, come se il ministero consistesse anzitutto nel passar carte e cartelloni, nel presenziare ad una infinità di riunioni, e soprattutto nel non tradire mai le mode del momento.

Come effetto: il discernimento vocazionale finisce per portare al sacerdozio candidati quantomeno discutibili e finisce per negarlo a molti per motivi che non hanno nulla a che vedere con la retta fede, la vita morale, la limpidezza della chiamata, l’amore per il Magistero e la Tradizione.

Si tratta di un circolo vizioso il cui naturale sbocco finale è la sterilità del sacerdozio. Da un lato vediamo la Chiesa inquinata da pessimi sacerdoti, dall’altro vediamo pessimi sacerdoti promuovere sempre più tiepide (e sempre più scarse) vocazioni.

Mentre è facile mettere insieme un’ampia antologia di pessimi esempi sacerdotali e di false vocazioni, è un po’ più difficile per i semplici fedeli farsi un’idea dell’incalcolabile danno conseguente dall’abortire vocazioni. Anche perché è un fenomeno poco documentato, per motivi che spiegherò più avanti.

Sia ben chiaro che qui tratto solo della persecuzione di persone che avvertono sinceramente la chiamata al sacerdozio e che non hanno motivi (sul piano morale o della fede) per essere perseguitati.

== «ET PROHIBUIMUS EUM» ==

Non esiste un metodo infallibile per vagliare vocazioni. Il primo errore storicamente documentato è stato commesso dagli stessi Apostoli: «Giovanni prese la parola dicendo: “Maestro, abbiamo visto un tale che scacciava demòni nel tuo nome e glielo abbiamo impedito, perché non è con noi tra i tuoi seguaci”. Ma Gesù gli rispose: “Non glielo impedite, perché chi non è contro di voi, è per voi”» (Lc 9,49-50).

È da vere bestie non avvertire la drammaticità di queste parole e la severità del giudizio.

Dai Vangeli (specialmente Marco) apprendiamo che gli Apostoli sono stati spesso rimproverati per le loro piccinerie. Quella per cui sono stati redarguiti stavolta, con il linguaggio di oggi, sarebbe suonata così: “signori, c’è un tale a cui non mancano la fede, la dirittura morale, la chiarezza della propria chiamata, la buona preparazione dottrinale, l’amore per il Magistero, per la Tradizione… però non era dei nostri, non era del nostro gruppetto, non era delle nostre parrocchie, non era raccomandato dal Famoso Tale, non era presentato dall’Altro Tale, e allora lo abbiamo mandato via, glielo abbiamo impedito!”

Nostro Signore risponde: «Non glielo impedite!» Una vocazione non va vagliata sulle cose umane (“non è della nostra cricca, non è della nostra stessa pasta”) ma sulle cose di Dio. Se ci sono le qualità richieste per il sacerdozio allora è un crimine contro la Chiesa abortire una vocazione. Crimine per il quale, durante questo pellegrinaggio terreno, nessuno pagherà mai: i perpetratori si fanno maliziosamente scudo delle parole dei santi, dicendo: «Ho l’incarico di vagliare vocazioni: la volontà del Superiore è la volontà di Dio»… Ma la volontà di Dio in realtà è un’altra: «Non glielo impedite!»

== OGGI: MOLTI ELETTI, POCHI CHIAMATI? ==

Questo dramma è molto più diffuso di quanto i semplici fedeli possano immaginare. Chi ha passato qualche anno in un seminario o in una comunità religiosa avrà certamente assistito almeno ad un “aborto” di una vocazione. Avrà certamente penato, nel rispondere agli amici e ai fedeli, alla fatidica domanda: «ma se non c’erano problemi morali o dottrinali, perché è stato dimesso?».

Per comprendere meglio la radice della crisi si può tentare un paragone tra la Chiesa e la famiglia. Ricordando per esempio che chi è senza ideali smette di generare figli. Peggio: pretende di fabbricarsi un figlio “perfetto”, secondo le voglie del momento.

Sì, riflettiamo. Non è ancora troppo lontano il tempo in cui l’arrivo di un figlio era una novità per tutta la famiglia, novità invariabilmente gradita, attesa o inattesa che fosse. Siamo già in nove? già in dieci? Ci stringeremo ulteriormente per aggiungere un altro posto a tavola. Ha un caratteraccio? Troveremo ugualmente un posto per lui. Vuol fare il calzolaio anziché il pianista? Ma ci sta bene lo stesso, il pianoforte lo riserveremo al prossimo figlio. Nasce storpio e malmesso? Ma lo erano anche grandi artisti. Nasce malato e destinato a morire? Festeggeremo quel poco di vita che gli è donata, lo cureremo nei limiti delle nostre possibilità. Un figlio in più è sempre un dono in più: siamo chiamati alla paternità e alla maternità, non siamo chiamati ad essere fabbricatori del “figlio perfetto”.

Ecco: la famiglia ereditava questa mentalità dalla stessa Chiesa. Verificato il minimo indispensabile per il sacerdozio, la Chiesa era continuamente arricchita da vocazioni di ogni genere e di ogni spessore, dagli scienziati ai “preti da Messa”, dai teologi ai cappellani; nessuna chiesa mancava mai di sacerdoti, nessuna chiesa esibiva mai una fila di confessionali vuoti. I preti particolarmente indegni del sacerdozio sono sempre esistiti, ma questa non era mai stata una scusa per l’arbitrio nel discernimento vocazionale. Non lo era mai stata fino alla nostra epoca, in cui si desidera tantissimo un figlio, ma lo si pretende perfetto (e si fa di tutto per non averne altri). Quel che oggi succede nelle famiglie è involontario specchio di ciò che avviene nella Chiesa.

== NON CHIAMIAMOLA VOLONTÀ DI DIO ==

Le anime belle dicono sospirando che “se il Signore vuole”, allora prima o poi l’ordinazione sacerdotale pioverà dal cielo su chiunque santamente la desideri, nonostante tutti i possibili ostacoli incontrati. Nulla togliendo alla fiducia nella divina Provvidenza, quell’argomentare è da fiaba perché confonde la divina chiamata con la “vocazione ecclesiastica” e dimentica la libertà degli uomini di accettare o rifiutare la grazia.

Scimmiottando il linguaggio dei santi, le anime belle dicono anche che la decisione di un superiore, per quanto ingiusta, sarebbe sempre “volontà di Dio”. Ma a parte il fatto che i santi non l’hanno mai intesa nel senso fatalista di chiacchiere da bar, chi veramente ama la Chiesa non può non soffrire per l’insulto al sacramento dell’ordine.

Esempio. Di fronte alle parole di Nostro Signore Gesù Cristo («non glielo impedite!») non possiamo affatto considerare legittima la decisione di un vescovo di dimettere un seminarista che ritiene inadatto all’incarico di parroco senza che vi siano ostacoli sul piano della fede o della morale: il sacerdozio non è un incarico amministrativo (e se quella è una vocazione allora non va cinicamente “dimessa” ma va accompagnata ancora). Sei un padre o sei un aguzzino?

Il termine burocratico “dimissione” indica quello che è formalmente l’abortire una vocazione. Indica cioè che una persona viene scaricata e abbandonata, magari circondandola di tanti bei discorsi, lavandosene pilatescamente le mani. Seguendo uno stupido legalismo con strascichi positivisti, oggi una tale “dimissione” viene considerata legittima anche se quando la sua ingiustizia sia evidente a chiunque. «Nella decisione del vescovo c’è la volontà di Dio», si dice per chiudere comodamente la questione. Ma non prendiamoci in giro: Dio può permettere il male (e solo in vista di un bene maggiore), ma certamente non lo desidera. Non possiamo chiamare volontà di Dio le decisioni ingiuste dei suoi ministri.

Non possiamo realisticamente supporre che la larga percentuale di “dimessi” e di “non ammessi” sia tutta fatta di svitati e di immorali. Non possiamo ignorare la mentalità oggettivamente abortista di tanti ecclesiastici: la “dimissione” non include praticamente mai l’accompagnare la vocazione in un altra strada verso il sacerdozio.

== NON PADRI MA CARCERIERI ==

L’elenco delle motivazioni alla base delle dimissioni è lungo e grottesco ma penosamente riducibile a due sole categorie: antipatie e mode.

Sì, non nascondiamoci dietro un dito: la causa più frequente dell’abortire vocazioni è il non andare a genio al formatore. Che perciò in tal caso, in buona o cattiva fede, si dedica all’investigazione ossessiva di ogni più piccolo difetto del formando al fine di raggranellare una passabile lista di motivi per espellere chi non gradisce.

Non sembri strana questa osservazione, visto che in ogni umano consesso esistono situazioni del genere. La lettura delle relazioni di seminario può provocare intrattenibili risate o santo furore: state dicendo sul serio? Siete davvero convinti che queste poche risibili accuse neghino con certezza la vocazione? State forse insinuando che c’è qualcosa che non avete il coraggio di affermare in prima persona?

== MA DAVVERO TI HANNO MANDATO VIA PER…? ==

Il semplice fedele resta sbigottito: ma come? ti rimproverano ogni anno per il colore non sgargiante delle tue magliette? Hanno scritto al tuo vescovo per metterlo in guardia perché a pranzo mangi un po’ più abbondante degli altri? Lamentano senza precisare circostanze di una tua incapacità nel “dialogo”? Davvero quel poco di sovrappeso è “un problema” per le tue formatrici? Una suora missionaria deve essere per forza magra come una scopa?

Un seminarista si vede contestare i libri che ha in camera. Vi chiederete: propaganda atea? Pornografia? Magia nera? Ma no, niente di tutto questo: si tratta di autori cattolici “che non sono teologi”, cioè non incasellabili nel ristretto panorama culturale dei formatori.

Nell’elencare i motivi per cui bisogna bloccare il percorso di un seminarista viene contestato addirittura che “non saluta nei corridoi”. Ma chi è che chiedeva un saluto nei corridoi e non è stato prontamente accontentato? Non si rendono conto che così facendo condannano tutta la schiera di santi sacerdoti dotati di un caratteraccio (da san Tommaso d’Aquino a sant’Ignazio di Loyola, da san Pietro apostolo fino a san Pio da Pietrelcina)?

Ad un altro è stata severamente contestata la partecipazione ad incontri di formazione spirituale non organizzati dalla diocesi: il prete deve essere prete di tutti, perciò non può appartenere a questo o a quel gruppo, non deve partecipare ad iniziative religiose che non siano quelle parrocchiali e diocesane. Sic. Anziché guardare il contenuto, si guarda il contenitore.

Un seminarista viene severamente redarguito per la passione per la fotografia. Ma cosa fotografava, vi chiederete, donne nude? Ma no, niente di osceno: solo piante, liturgie, animali. Gli viene detto che deve dimenticare l’hobby della fotografia in quanto sarebbe “poco sacerdotale”. Vi chiederete: ma quante ore al giorno dedica al suo hobby? Quindici? Diciotto? No: totalizzerà a stento un’ora al mese, ma è un’ora “poco sacerdotale”, gravissima, da cancellare. In nessun ambiente di formazione sono graditi talenti “poco sacerdotali”: il prete oggi deve essere una macchina da messa e un impiegato amministrativo.

Non potete immaginare cosa è stato severamente detto al seminarista scoperto nientemeno che… a giocare con le automobiline in miniatura: è appassionato di qualcosa di assolutamente intollerabile! Se lo avessero scoperto in atteggiamenti contra sextum sarebbero stati più benevoli.

Gli esempi potrebbero proseguire a lungo ma hanno tutti le stesse costanti: ristrettezza mentale dei formatori e mobbing (si accusa il punto X quando in realtà si vuole colpire il punto Y).

== IL DRAMMA DELLA DIMISSIONE ==

Come dice il vecchio proverbio, chi cerca il pelo nell’uovo trova almeno un’intera parrucca. Se la moda clericale esige che il prete sia un clown di parrocchia, allora spiritualità, pietà, virtù non basteranno mai per evitare la persecuzione e la probabilissima dimissione. Se poi un formatore per un qualsiasi motivo ti prende in antipatia e decide di ostacolarti e bloccarti, allora qualsiasi tuo miglioramento in spiritualità, pietà, saggezza, virtù, non sarà mai sufficiente per convincerlo a ricredersi.

Come già detto in apertura, qui si descrive il dramma delle vocazioni abortite, non la meritata fine delle false vocazioni (cioè quelle non mosse da retta intenzione oppure problematiche dai punti di vista della fede o della morale).

Complice il baccano mediatico sui cosiddetti scandali del clero (amplificati e moltiplicati ad arte in funzione anticattolica), complice la riduzione del discernimento vocazionale ad applicazione di regolamenti, mode e antipatie, siamo giunti al punto che si getta via con l’acqua sporca anche il bambino.

Nel dubbio e nella paura, le gerarchie ecclesiastiche allungano i tempi della “formazione” (cioè del minuzioso cercare il pelo nell’uovo); nella paura e nel dubbio, si abortisce una vocazione, «tanto se Dio vuole gli farà trovare una strada» (come a dire: facciamo comunque il danno, così da pretendere che il Signore si cimenti a risolverlo se non lo gradiva). Nel dubbio e nella paura, le gerarchie ecclesiastiche rifiutano di accogliere qualcuno “dimesso” da altre diocesi, altri conventi, altre strutture ecclesiastiche.

La paura non è infondata: esistono casi di false vocazioni che saltellano da un posto all’altro fino a quando non ottengono l’ordinazione sacerdotale. Ma il guaio è che per difendersi da costoro, le gerarchie ecclesiastiche puniscono anche quanti sono stati “dimessi” ingiustamente.

Il vero dramma della dimissione è che si viene considerati peggio che appestati. «No, non prendo seminaristi da altre diocesi» dice sorridendo il vescovo al giovane “abortito” che era venuto da lui in ginocchio e col cuore in mano ad implorare aiuto.

Il principio del “se ti hanno dimesso vuol dire che l’hai fatta grossa” è fondato sul falso presupposto che le strutture di formazione siano infallibili. Ma come? Gli stessi Apostoli hanno dimostrato di saper prendere un abbaglio («glielo abbiamo impedito!») e le strutture di formazione non sbaglierebbero mai? Non può forse darsi il caso di formatori che abbiano “abortito” per ben poco sante ragioni? Non può forse darsi il caso di vocazione abortita per motivi che con la fede e la morale non c’entrano niente?

Ma prova ad immaginare questo stesso problema in versione “matrimoniale”: sei stato fidanzato con una donna che successivamente ti ha lasciato, ma non appena tenti di corteggiare un’altra donna questa ti dice: “non sei adatto al matrimonio, poiché se la tua prima morosa ti ha piantato, vuol dire che hai fatto chissà che guai e che dunque anche con me farai chissà cosa, perciò non ti posso accettare”.

== MA NON POTEVI TENTARE ALTROVE? ==

Di fronte alle difficoltà, il formando ingiustamente perseguitato pensa quattro cose.

Primo: se vengo perseguitato per motivi che non hanno a che fare nè con la fede, nè con la vocazione, allora è indubbiamente opera del demonio per indebolire la Chiesa.

Secondo: il soldato non può abbandonare il campo di battaglia se non gli viene esplicitamente ordinato; anche quando le difficoltà tentano alla disperazione, finché il direttore spirituale mi dice di rimanere io rimarrò sul campo.

Terzo: altrove? E in quale “altrove” dovrei domandare di far realizzare la mia vocazione? Con che criterio (diverso dalla paura di essere dimesso) dovrei lasciare questo seminario per cercarne un altro? E quale altro?

Quarto: se in teoria il primo formatore è il mio vescovo, come faccio a fargli capire che le persone di cui si fida e che devono giudicare la mia idoneità al sacerdozio mi sono in realtà ostili per motivi che con il sacerdozio non c’entrano niente? Quanto tempo mi ci vorrà per fargli convincentemente luce su ciò che sta accadendo?

Ecco perché il seminarista perseguitato non solo non protesta, ma tenta di essere sempre più obbediente, nella speranza (spesso assai poco fondata) di riuscire a smontare i pregiudizi dei suoi “formatori”. Interrogato dai suoi amici più fidati, parlerà bene dei suoi persecutori (anche per il terrore che una parola di troppo possa involontariamente passare di orecchio in orecchio fino al seminario).

Ecco spiegato anche il motivo per cui, anche di fronte alla dimissione, pur di non farsi da solo terra bruciata attorno, continua a non fare baccano: sa già che coloro che hanno aperto bocca (indipendentemente dalla validità dei motivi della loro dimissione) non hanno più trovato nessuno disposto ad accoglierli.

Il clamore mediatico orchestrato contro certi scandali clericali è oggi visto non come una persecuzione, ma come un criterio per respingere vocazioni. Una tipica affermazione da vescovo italiano: «no, per direttiva della Conferenza Episcopale non accetto seminaristi provenienti da altre diocesi».

== I NUMERI DI CUI NESSUNO PARLA ==

La percentuale di “dimessi” è talmente alta da far preoccupare anche chi vive consolandosi di menzogne e perfino chi è scettico sulla serietà di coloro che domandano di entrare in seminario o in convento. Se a questa aggiungiamo poi quelli che volontariamente interrompono il cammino di formazione (o che vengono bloccati per problemi di fede o di morale), la percentuale di coloro che giungono al traguardo diventa misera.

In un certo posto cominciarono in otto, ma solo due furono ammessi al seminario maggiore, di cui uno solo divenne prete (50% senza contare i sei non ammessi all’inizio).

In un certo seminario maggiore cominciarono in trentadue, a cui si aggiungero nel frattempo altri otto: in totale solo quattordici divennero preti (28%).

In un altro posto cominciarono in ventisei il primo anno, restarono in dieci verso l’ultimo anno, solo otto divennero preti (30%) senza contare quello tra gli otto che nel giro di un anno ha chiesto di lasciare il sacerdozio.

Cosa dire allora delle otto che entrarono, e che a metà noviziato erano già ridotte a tre, di cui solo due proseguirono, e solo una è diventata poi suora? (12%).

In un altro caso erano ben ventisette nel tempo previo, di cui solo tre entrarono al primo anno, di cui uno solo proseguì ma fu dimesso prima della fine? (0%).

Cercate, cercate pure: non troverete da nessuna parte le statistiche relative agli abbandoni, alle dimissioni per giusta causa e soprattutto alle vocazioni abortite: negli annuari vi dicono il totale dei formandi ma non vi dicono mai il totale degli scarti.

== E LA QUALITÀ DELLE VOCAZIONI? ==

Un esercito di scartati, una moltitudine di vocazioni “abortite”. Erano forse tutte scarsamente motivate? Moralmente discutibili? Avevano problemi di fede? Si tratta davvero di persone che nel domandare di entrare in seminario non avevano fatto ancora i conti con la propria vita?

Di fronte a quelle percentuali così spettacolari, a chi non conosce la Chiesa cattolica verrebbe da supporre che la qualità dei sacerdoti oggi sia elevata.

Pia illusione! Purtroppo destava già troppe preoccupazioni la percentuale di sacerdoti che dopo pochi anni (a volte molto, molto meno) diventa noiosa, insignificante, pasticciante con la fede e la liturgia, se non addirittura con problemi morali o psicologici.

La formazione semplicemente non funziona. Da un lato scarta troppi candidati, dall’altro quelli che promuove al sacerdozio si rivelano troppo spesso una delusione. Non si può non pensare che siano due facce della stessa medaglia. Specialmente per chi conosce in cosa consiste l’addestramento al sacerdozio.

== DUNQUE SONO I SEMINARI CHE NON FUNZIONANO… ==

I seminari sono zeppi di attività che ufficialmente servono a “preparare” al sacerdozio, ma in realtà sono nel migliore dei casi una perdita di tempo.

Un esempio tra tutti: il canto. Il sacerdote, nelle celebrazioni, è l’unico che non è tenuto a cantare i canti liturgici. Al sacerdote spetta al più cantare determinate parti della liturgia. Le prove di canto in seminario servono solo alle attività di seminario: sono cioè fini a se stesse.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma allora chi canterebbe più in seminario? Questo genere di domanda conferma che in seminario il canto è fine a se stesso. Si dice che chi prega cantando prega tre volte: ma i medievali lo dicevano intendendo il sublime gregoriano o l’eccelso polifonico, non le sincopatissime e scalcagnate canzonette western-popolari che tanto somigliano ai jingle pubblicitari delle TV locali. Se volessimo approfondire la questione del canto in seminario, potremmo dolorosamente scoprire l’entità del danno che ha procurato. Tante buone intenzioni sulla carta, tanti tristi risultati nella realtà.

Si possono purtroppo approfondire tanti aspetti della vita di seminario oggi e cavarne invariabilmente la stessa pessima impressione. Come ad esempio gli studi che anziché preparare preti capaci di spiegare la fede alla gente, imbottiscono i seminaristi di nozioni filosofiche e teologiche che nel ministero non serviranno a niente. Oppure le liturgie del seminario che per dare l’impressione di essere più speciali ed esclusive, sono costellate da lungaggini, da abusi liturgici, da cerimonalismo (mentre la liturgia non è un cerimoniale, non è una messinscena), da spontaneismo, da farraginosità, da teatralità. Oppure si potrebbe parlare di quanta approssimazione produca la gran quantità di attività e obblighi da ottemperare.

Queste sono solo altre (tra le tante) conseguenze dei “formatori” di mestiere, tali per un incarico amministrativo, capaci solo di comandare e verificare attività, in barba ad una magari anche intensa vita di preghiera… staccata dalla realtà e dal sincero amore per le vocazioni.

Se i seminari sono così, come meravigliarsi che a soccombere, più che le “false vocazioni”, siano quelle sincere? Che delusione può rappresentare per una persona sana di mente e di forte spiritualità il vedere che la vita di seminario è solo un elenco di attività da far apparire ben fatte al controllore di turno? Come meravigliarsi della cosiddetta “incompatibilità” tra certi formatori e certi formandi, ossia il mobbing dei primi contro i secondi (rei di non essere loro cloni)? Come stupirsi quando un “formatore” guarda con ostilità il formando che ha capito bene quanto sia un’inutile messinscena l’attivismo del seminario? Come meravigliarsi che pressoché tutti i formandi vivano il seminario come un biglietto da pagare per accedere al sacerdozio, come delle forche caudine da attraversare minimizzando i danni?

Il discernimento delle vocazioni è diventato un mestiere: è questo il principale insulto al sacramento dell’ordine. La messe è molta e gli operai sono pochi: se licenziamo gli operai buoni e volenterosi e assumiamo solo quelli di poche qualità, stiamo forse ubbidendo al comando del Signore?

Pretendono la vocazione perfetta?

La tentazione di pretendere la “vocazione perfetta” è purtroppo in tutti gli schieramenti, dal più profondo progressista al più avanzato tradizionalista.

I progressisti pretendono la vocazione perfetta: promuovono solo persone mediocri (ai loro occhi “docile” significa “mediocre”), senza carattere, sempre pronte all'(iper)attivismo da sagrestia, indifferenti (se non entusiaste) di fronte al fantasismo liturgico d’accatto; il modo peggiore per presentare la propria vocazione è mostrarsi convinti della propria chiamata, appassionati nella difesa della fede, acculturati o addirittura laureati in materie non teologiche, simpatizzanti per la tradizione.

I tradizionalisti commettono lo stesso errore ma con qualche colorazione diversa: pretendono la vocazione perfetta, cioè un giovane studioso, magro, adeguatamente rasato, prontamente riprogrammabile (ai loro occhi “docile” significa “riprogrammabile come un robot tradizionalista”); il modo peggiore per presentare loro la propria vocazione è essere italiani, avere almeno 29 anni, non ripetere pedissequamente le frasi dello stupidario tradizionalista, non agire come un robot tradizionalista.

Lo spirito tradizionale è una santa cosa, il tradizionalismo no. Il tradizionalismo è una fissazione, è l’errore specularmente opposto al progressismo.

Per quel che riguarda le vocazioni, infatti, possiamo per esempio ricordare quella piccineria spirituale del non accettare vocazioni ultratrentenni, ultratrentacinquenni, perché non sarebbero plasmabili, non sarebbero incastrabili nella ferrea disciplina (cioè in quella sorta di legalismo protestante in talare e breviarium).

Nel mondo tradizionalista, in nome di una imprecisata purezza della razza, la formazione al sacerdozio non è un far emergere vocazione e talenti di un uomo al servizio della Chiesa secondo lo spirito tradizionale, ma è invece il programmare e controllare minuziosamente un robot tradizionalista sradicando qualsiasi altro aspetto umano, erroneamente convinti che ciò comporti automagicamente impeccabilità liturgica, purezza morale e ortodossia dottrinale.

La dimostrazione di quanto affermo è non solo nel disciplinarismo e nel luddismo degli ambienti tradizionalisti (per esempio quando vietano internet e telefonini come se fossero sentine d’ogni stravizio), ma anche nello spessore umano di ormai tanti preti tradizionalisti, robot liturgici a tutti gli effetti, che vivono come se la santità e la felicità fossero due cose distinte, cioè come se l’ascesi fosse un perbenismo da copertina della Torre di Guardia ma in salsa ancien régime.

Seminaristi, pregate!

Cari seminaristi, pregate!

Pregate affinché lo squallore dei seminari non vi vinca: attivismo fine a se stesso, abusi liturgici e castronerie spirituali, banalizzazione (o estrema complicazione) delle cose della fede, teologia astrusa utile solo a coloro che la insegnano…

Pregate affinché la vostra fede non venga mai meno: alle anime che vi saranno affidate non servirà a niente sapere della posizione di Heidegger rispetto a quella di Kant, non servirà a niente sapere delle sottili distinzioni tra il Suarez e il Lonergan, non servirà a niente tutto quel trito parolame sull’ecumenismo e sul dialogo e sulla pace e sul terzomondo, non servirà a niente discettare di negatività e psicologia, di fede adulta e comunitaria, di shekinah e di solidarietà, di sacra sinassi e di kerygma…

Pregate affinché la vostra vocazione non sia ridotta a impiegatucci del sacro, clown animatori di noiose parrocchie, direttori d’orchestra di canzonette che qualunque persona sana di mente si vergognerebbe a cantare in pubblico fuori dalla Santa Messa, organizzatori di riunioni con tutto il mondo (dal sindaco ai catechisti, dai disoccupati al comitato festa, dagli anziani del quartiere alle signore della Caritas)…

Pregate, affinché diventiate sacerdoti piuttosto che macchine da messa, affinché diventate direttori spirituali e confessori, anziché psicologi fai-da-te e distributori di chiacchiere, affinché diventiate guide della fede anziché dispensatori di prediche insulse…

Pregate, affinché non diventiate arroganti pensando di essere giusti, severi pensando di essere misericordiosi, lassisti pensando di essere generosi, maniacali pensando di essere precisi, vicini alla gente pensando che bastino le scemenze apprese in seminario per essere interessanti…

Pregate, perché il demonio non perde tempo con grosse tentazioni, perché ha come obiettivo il rendervi insipidi mestieranti del sacro e, come chiunque può notare, ultimamente c’è riuscito fin troppo bene.

Mobbing clericale

Il mobbing è un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, ostracizzazione…) perpetrati da parte di uno o più individui (detti mobber) nei confronti di un altro individuo (vittima), comportamenti prolungati nel tempo e lesivi della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso. I singoli atteggiamenti molesti non raggiungono necessariamente la soglia del reato né debbono essere di per sé illegittimi, ma nell’insieme producono danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, la sua salute, la sua esistenza.

Normalmente quando si parla di mobbing si intende il mondo del lavoro. Il termine però è utilizzato in più campi (famiglia, società, scuola…) perché in qualsiasi aggregazione umana è possibile trovare casi di mobbing: per questo non deve destare alcuna meraviglia la presenza di casi di mobbing nel mondo ecclesiastico nei cosiddetti ambienti di formazione.

In tale caso si può definire il mobbing nello stesso identico modo sopra riportato, con la differenza che al posto del lavoratore c’è una persona in formazione (ovvero in verifica vocazionale per diventare prete, suora, frate, monaca…) mentre al posto dei mobber ci sono i formatori (cioè quanti sono preposti al discernimento vocazionale più i loro eventuali complici).

Lo scopo del mobbing nel campo della suddetta formazione è quello di indurre un formando sgradito all’autoallontanamento spontaneo attraverso tutta una serie di pressioni e vessazioni di tipo pressoché esclusivamente morale o psicologico.

Il motivo per cui ciò avviene è la peculiarità della formazione al sacerdozio o alla vita consacrata.

Nel mondo del lavoro vigono standard esterni da rispettare (leggi, convenzioni, contratti… strutture, responsabilità, statuti…) e che in caso di contenzioso possono essere verificati fuori dal proprio ambiente (cioè in tribunale).

Negli ambienti di formazione sopra citati, invece, molti degli standard sono interni e la valutazione dei casi avviene attraverso rapporti di fiducia prima che attraverso regolamenti. Per esempio un vescovo non può essere costretto a conferire un’ordinazione sacerdotale; la selva di “a suo insindacabile giudizio” è talmente ampia da non poter considerare il tribunale ecclesiastico come equivalente di quello civile.

Chi si stupisse chiedendosi come sia possibile il mobbing in un ambiente dove frequentemente ci si allena a interrogarsi sul valore delle proprie azioni (esame di coscienza), deve ricordare che – sebbene in maniera spesso assai discutibile – il mobbing viene considerato dai suoi perpetratori come il male minore da preferire ad un male peggiore.

Il mobbing dei formatori ottiene generalmente grande risultato con il minimo sforzo a causa del contesto: i formandi sono in posizione particolarmente debole. Elenchiamo qui qualche motivo:

1. I formandi sanno che fino al termine del percorso (cioè fino al momento dell’ordinazione sacerdotale o della professione solenne) saranno sempre fondamentalmente ricattabili in quanto in posizione di totale debolezza. Per esempio è prassi tipica di punire (o vessare) un candidato al sacerdozio decidendo all’ultimo momento di rinviare per mesi o addirittura anni l’ordinazione. Oppure, per giocare un atout contro il formando, lo si può minacciare di sospensione per un anno (punizione vilmente chiamata pausa di riflessione, come se fosse stata chiesta dal formando anziché dai formatori), tempo durante il quale viene ancor più incisivamente controllata la buona condotta del formando.

2. Nell’accedere al cammino di verifica vocazionale, i formandi hanno concretamente messo in gioco una consistente fetta della propria vita (la formazione al sacerdozio dura non meno di sei anni, periodi almeno altrettanto lunghi sono dovuti per l’accesso alla professione solenne nelle comunità religiose) ed ogni incertezza o prolungamento è causa di prevedibili sofferenze; al contrario, i formatori non rischiano nulla, forti del poter giocare con gli anni della vita altrui come se fossero noccioline.

3. I formandi hanno messo in gioco molto altro (la propria credibilità, la propria immagine, spesso le risorse economiche proprie, della propria famiglia, dei propri benefattori, la propria serenità nell’adesione alla Chiesa) per cui ogni ingiusto provvedimento è un grave dolore che si propaga anche ad altri e non di rado mette in crisi anche il rapporto con la Chiesa (come posso elogiare la Chiesa che maltratta la mia buona fede? chi mi crederà se affermo che questa evidentemente ingiusta oppressione sarebbe tutto sommato volontà del Signore espressa attraverso la gerarchia ecclesiale?)

4. In caso di problemi durante la formazione, i non addetti ai lavori metteranno in dubbio sempre e solo la buona fede dei formandi (ostinandosi a supporre che i formatori, scelti di proposito per quell’incarico, sappiano bene quel che fanno). Infatti, funzionando la gerarchia su rapporti di fiducia, il metterne in dubbio un piano diverso da quello più basso rischia per coerenza di far dubitare di tutti gli altri piani superiori.

5. Esiste anche un problema morale: il formando ingiustamente trattato ha difficoltà a rendere pubbliche le malefatte di coloro che lo vessano perché raramente l’interlocutore sa distinguere fra critica al sacerdote (persona che può sbagliare) e critica al sacerdozio (cioè al sacramento, cioè alla Chiesa tutta), contrariamente al mondo del lavoro dove criticare l’operato di un manager non significa criticare l’intera categoria dei manager.

6. Un’ulteriore difficoltà deriva dal fatto che gli stessi metodi utilizzati per vessare innocenti sono spesso utilizzati anche per vessare colpevoli (cioè i formandi che per qualche motivo -spirituale o morale- si sono rivelati oggettivamente inadatti, ossia privi degli elementi di base della vocazione); spesso i formatori temono di dare indicazioni chiare (cioè esplicitamente dimettere qualcuno per giusta causa), preoccupati da fattori esterni (per esempio il non voler affrontare un contraddittorio, l’incapacità di esprimere le proprie ragioni, il rispetto di equilibri umani e di reti di amicizie).

Si può dunque parlare di mobbing clericale se si tengono presenti le particolarissime circostanze e se si riconosce che la generale mediocrità del clero è dovuta anzitutto alla persecuzione di vocazioni sane.