Il canto delle checche

La cosa che più mi addolora è che le vocazioni oggi debbano subire senza riparo il “nubifrocio universale” che si sta abbattendo sulla Chiesa, così chiamato da don Ariel Levi di Gualdo nel suo volume “E satana si fece trino”, dove dice tra l’altro:

«Se davvero vogliamo affrontare questo problema drammatico, dobbiamo partire da un triste dato di fatto: oggi, all’interno del clero secolare e religioso maschile, il numero degli omosessuali è spaventosamente alto e si divide tra gay praticanti e gay repressi; i secondi più attivi dei primi nell’esercizio della loro logorante omosessualità psicologica. Gli omosessuali per carattere psichico repressi nel corpo, sono di gran lunga peggiori di coloro che praticano l’omosessualità fisica, causando da sempre all’interno della Chiesa dei danni talora enormi talora irreparabili, puntando sempre e di rigore a piazzarsi nei posti più alti e nei ruoli-chiave di governo, per meglio rafforzare una lobby molto potente e solidale al suo interno, retta su criteri pornocratici». (Cit. pag, 207).

Quelle canzoncine chiesastiche cantate quotidianamente mattina, mezzogiorno e sera (per essere poi imposte in parrocchia) sono la più compiuta espressione comunicativa delle checche da seminario, opera davvero diabolica visto che basta ascoltarle una sola volta per non togliersele più dalla testa.

Considerarle come una “penitenza” per accedere al sacerdozio mi pare un inutile fatalismo, mi sembra un arrendersi a quella gravissima malattia della Chiesa, oltre che un’impresa titanica e fondamentalmente irrealizzabile per uno che non è checca e verrà ossessivamente controllato e continuamente vagliato dalla cricca delle checche. Che a fine anno emetteranno quelle comiche e grottesche “relazioni” che severamente condannano quel seminarista che “non partecipa molto al canto”.

tratto da: Effedieffe – La Chiesa può accogliere ancora una vocazione?

Lascia un commento